Non è mai sceso a patti con la vita, Miles Davis. Né con la musica, le donne e la morte. L'ha presa dritta dritta, con quegli occhioni di fuoco in un corpo gracile e rabbioso; se n'è approfittato come pochi altri hanno saputo fare e alla fine ha vinto lui. E' morto ed è rinato; poi è morto nuovamente ed è rinato ancora. Ogni volta è tornato ad essere se stesso, pur rinnovandosi. Vero, è stato il catalizzatore di tante rivoluzioni stilistiche; verissimo, ha saputo percorrere la storia del jazz vivendo in prima persona svolte storiche. Ogni volta però è tornato ad essere se stesso. Un cubo magico, sei combinazioni diverse di uno stesso oggetto. Beh, lui le ha esplorate tutte, sempre tenendo stretto in mano il suono purissimo e morbido della tromba, il lirismo inconfondibile, l'attacco talmente tagliente da essere inafferrabile. Non occorrono strumenti statistici sofisticati per poter affermare che Davis è uno dei musicisti più citati nel mondo del jazz. Basta passare in rassegna ancora oggi, a tredici anni dalla sua morte, qualsiasi rivista specializzata e osservare in che misura ricorrono espressioni dei tipo: "è debitore di Davis", "il fantasma di Davis" e tante altre. Lui sì che sapeva essere sempre se stesso; non è mai sceso a patti. (Dal prologo)